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Identità?

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Incontro supervisori della Società. Il tema che la referente ha scelto è “l’identità dello psicoanalista”; sono un po’ tardi, e quando arrivo son tutti già addentro alla discussione, cercando di definirne i confini e le caratteristiche del ruolo. Intervengo, dicendo che il concetto non mi appassiona, e anzi lo ritengo piuttosto pericoloso per una buona psicoanalisi. Mi guardano un po’ così, però sono intrigati dalla prospettiva e allora approfondisco.

Identità è un concetto nato nel secolo scorso, dominato da un lato da un’epistemologia illuministica fondata sulla ragione quale torcia che permette di conoscere l’altro (e il mondo) e dall’altro sulla concezione di soggetto individuale, sorto solo dopo il rinascimento e che proprio a cavallo tra l’800 e il ‘900 ha trovato il suo apice (Freud era lì..). In pratica io sono io e tu sei tu, e ti potrò conoscere in quanto tale. Un modo di pensare che era proprio di un mondo stabile, fatto di relazioni lente, fondate su ruoli chiaramente definiti.

Ma oggi ancora si può? Ha senso ha parlare di identità in un mondo fluido, dove i confini si stanno via via sfumando, dove la scienza ci ha chiaramente evidenziato che non c’è possibilità di conoscenza oggettiva ma l’osservatore è sempre intrinsecamente implicato con l’osservato?

Per me non si può. Anzi, affermo con forza che reclamare una propria identità risponde solo alla necessità di costruire un dispositivo per soddisfare bisogni molto basic di sicurezza e protezione. E le conseguenze son sempre nefaste, perchè va sempre a generare una cesura io/l’altro.

Sul versante socio.- con estremo sconcerto assistiamo infatti alle voci tonanti che reclamano una presunta identità razziale, di patria, religiosa o di altre follìe. Su quello più individuale assistiamo alle innumerevoli violenze quotidiane subìte dai più frangibili. Su quello psicoterapeutico per contro alla generazione di un dispositivo analista/paziente dove il primo si arroga il diritto di curare il secondo, senza pensare che così non cura ma conforma (si veda per questo punto e sulla differenza tra cura e prendersi cura alcuni scritti precedenti in questo blog).

E così ho proposto che è meglio se l’analista la sua identità se la dimentica. se non lo fa lui non lo può chiedere all’altro, e l’altro è e resterà sempre un mistero. Ho proposto anche che è meglio se in seduta invece che un analista ed un paziente ci stiano due analisti, ognuno esperto della propria esperienza e ognuno dei due disponibile a rimetterla in gioco.

Poi, certamente, sarà a carico di uno dei due la garanzia che durante la seduta ci si mantenga sul livello analitico, che però appartiene all’interazione e non all’analista e questo giustificherà di per sè l’onorario.

Mi han continuato a guardare un po’ così, ma lo posso capire, il salto è notevole e mica tutti hanno avuto la fortuna di lavorare con un maestro che si chiama Michele Minolli, che con coraggio tempo fa ha aperto questa nuova strada, ben nota in alcune correnti filosofiche e – più di recente – neurobiologiche,  ma inedita per l’universo psi.-. Vedremo la prossima volta.

Nel frattempo, per approfondire il concetto di identità e la sua pericolosità drammaticamente attuale consiglio la lettura del breve saggio di Francois Jullien che ho messo in foto. Anche se scrive un po’ troppo è sempre un autore che mi piace molto, chiaro lettore del contemporaneo e mai banale.

Buona lettura.

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Pietà

trovata in rete (for m. forever ago) e la faccio girare. Son momenti difficili, l’importante è stare saldi e prendere posizione.

PPP

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