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Roberto Merlo

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Marina Cvetaeva scriveva, nei primi anni del secolo scorso, che tanto più è luminosa l’insegna tanto più è scadente la merce. Se è vero, come spesso è vero, anche il contrario allora questa è un altra prova che Roberto Merlo è un eccellente psicologo di comunità. Di lui in rete si trova poco o niente, non compare sui media, non è un frequentatore abituale dei festival, e credo che il suo nome ai più non dica nulla.

L’ho conosciuto circa venticinque anni fa e lavorare con lui è stata un’esperienza ricchissima. Tra le moltissime cose che ho imparato ricordo che al tempo gli chiesi come faceva a praticare allo stesso tempo il lavoro di comunità e la clinica. “Non c’è l’uno senza l’altro” mi ha risposto. Sul momento non capii, ci arrivai quindici anni dopo. Il clinico che pratica solo nel suo studio perde un po’ alla volta il contatto con la realtà, mentre chi non entra nella clinica non tocca la profondità del contatto con le singole linee di vita.

Di recente l’ho ritrovato, ed è stato un vero piacere. Mi ha girato un paio di suoi scritti recenti, redatti all’interno di progetti che lo hanno coinvolto in passato; li ho trovati stimolanti, e condivido pienamente la prospettiva da cui guarda il mondo, che ritengo vada diffusa, per contrastare il vuoto di pensiero oggi imperante.

Gli ho chiesto se posso pubblicarli, mi ha detto di sì, e così sono ben contento di aggiungerli al blog: sono scaricabili qui sotto.

Roberto Merlo

costruzione diagnosi dipendenze

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Cambiare idea

Venerdì scorso, su invito, sono intervenuto al Convegno SIPRe a Milano sulla Psicoanalisi del tempo presente.

Di seguito posto la traccia su cui ho fondato l’intervento.

cambiare idea

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La popolarità del male

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Già la Arendt ci aveva aperto gli occhi sulla pericolosità di un male che sta nelle pieghe dell’ogni giorno, di ogni indifferenza, ben più pericoloso dei mostri che girano per le nostre strade. (per chi non ha mai letto il celebre “la banalità del male” è una buona occasione per prenderlo in mano).

Oggi però siamo andati oltre; è tra noi, è diffuso, fa paura. E’ una nuova mutazione antropologica? Come si può ripensare al male davanti a quello che sta succedendo? cosa si può fare? Ognuno è chiamato ad interrogarsi, nessuno può dirsi escluso.

Lo squilibrato di turno, incapace di accettare la fine di una relazione vorrebbe uccidere la donna. Non la trova, così uccide la figlia, per poi togliersi la vita. Fin qui è cronaca, durissima, davanti alla quale, purtroppo, i più si stanno abituando.

La novità è la reazione della madre, che il giorno dopo accetta un’intervista in TV.  Perchè lo fa? Una reazione ad un dolore sentito eccessivo e quindi per una ricerca di condividerlo? Un tempo avrei pensato così. Oggi temo che in realtà non ci sia nessun dolore dietro da affrontare, eccetto il terrore di un vuoto che si tenta di riempire con gli occhi di chi la guarda.

Da leggere il bell’articolo comparso su “Repubblica” che si trova qui sotto. E pensarci su, interrogarsi. Che ognuno che è ancora vivo nel suo piccolo si adoperi perchè queste cose non succedano. Il male è dentro, è un cancro che mangia dall’interno. Dentro chi in TV c’è andata, per la quale non trovo sensate parole. Ma soprattutto dentro quelli che l’intervista l’hanno guardata, magari sentendosi molto empatici e pronti ai peggiori pensieri per questi malvagi squilibrati, non accorgendosi nemmeno che sono proprio loro che li creano.

La voce del dolore

 

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Senza padri (e madri)

senza padri

Per una società orizzontale, che è meglio. Questa è imbevuta di verticali, dove agli altri viene spesso e (mal)volentieri attribuita maggiore importanza o peso, generando così senza fine dispositivi di potere, dove uno dirige e l’altro è diretto. così quando uno va da un consulente (un medico, un parroco, uno che ne sa qualcosa di più su un argomento qualsiasi) spesso lo mette su un piedistallo e si pone in modalità reverenziale, invece di ricordarsi che quel consulente è lì al suo servizio e che al centro dell’interesse c’è lui. Naturalmente il lato oscuro della medaglia è la delega della responsabilità del proprio vivere, che per moltissimi purtroppo resta e forse resterà per tutta la loro vita, un miraggio desiderato ma irraggiungibile.

Anche molta psicoterapia naturalmente affonda le radici in questo terreno, basti pensare alle analogie che moltissimi fanno con l’analista-Virgilio, o Psicoilluminati mediatici che son lì a parlarci ancora di Telemaco e della scomparsa del padre. Sono metafore facili da dire perchè di facile presa, e seduttive da agire perchè forniscono immediati strumenti per sentirsi qualcuno-che-fa-qualcosa. Purtroppo sono oggi riprese a piene mani, in un gioco al ribasso, anche da larghe frange di counselor, filosofi e trainer che sull’ assunzione a sè della delega che viene loro offerta si sono andati a strutturare.

Questo libro va nella direzione contraria, merita i soldi e il tempo spesi per leggerlo e dà anche segnali confortanti, soprattutto nella parte dedicata alle nuove generazioni.

Un piccolo assaggio:

Il lavoro che ci siamo proposti di fare è quello di contestare la logica verticale che sta dietro all’accattivante narrazione della perdita dei padri come ragione recondita dell’infelicità dei singoli e delle disfunzioni sociali. E all’appello ad autorità paternali, magari buone e che vogliono il bene dei sottoposti, abbiamo opposto il principio individualista della stima e cura di sè, della responsabilità che nasce e si sedimenta quando le persone sono educate a vedersi e vedere gli altri come uguali. Non è la fine della figura del padre che ci interessa, ma la surrettizia creazione di surrogati di autorità paterna che il paradigma del padre favorisce in una società che è comunque orizzontale. (..) Quel che ci interessa mettere in luce discutendo la tesi popolare della fine dei padri è come questa poggi su una visione dei rapporti umani, a partire da quelli affettivi e intimi, improntata alla conservazione di relazioni verticali a dominanza maschile, e non alla formazione di persone autonome, disposte e capaci di disincagliarsi da ormeggi costrittivi e prendere in mano la responsabilità delle loro scelte“.

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Quanto Ferro?

 

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q.b.

Troppo poco no, perchè si perdono stimoli e punti di vista sulla cura davvero interessanti e fecondi.

Troppo no, perchè si perde tutto il portato teorico (e di conseguenza pratico) relativo all’interazione co-costruttiva della forma che prende la relazione.

Antonino Ferro è uno dei più celebri e celebrati psicoanalisti italiani. Bioniano “a modo suo” è un autore che ha delle cose da dire, e le dice bene, semplici, e questo non è poco.

L’ho ascoltato in più occasioni, e pur non essendo molto d’accordo sulla sua linea teorica – per lui il paziente resta il paziente e l’analista resta l’analista – offre una visione dell’analisi nuova, che contribuisce a smontare un’ortodossia ancora troppo diffusa e porta una boccata d’ossigeno per costruire qualcosa di migliore. Concetti quali i pittogrammi, il valore che attribuisce al sogno e le sue considerazioni sulla relazione analista-paziente sono ottime occasioni per pensare.

la conferenza qui sotto vale il tempo che si investe per ascoltarla.

 

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Cinque minuti

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50 anni sono tanti, il mondo ha cambiato assetti, geografia, confini, senso.

A riprendere in mano i suoi scritti, invece, sembra non sia cambiato niente.

Cinque minuti, per fermarsi a riflettere. Magari leggendo un buon articolo che lo riguarda e farci un pensiero su: Don Milani

 

 

 

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Orientarsi con il Jazz

 

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Mi è capitato in mano questo libro. Da tempo il Jazz è metafora utile per le filosofie della mente e le neuroscienze, e diversi scrittori (Murakami), filosofi (Arnold Davidson) Jazzisti (Wynton Marsalis) o neuroscienziati (Francisco Varela, pace all’anima sua) esplorano quel territorio, di linee singole che dal basso si cercano, si intrecciano e si armonizzano per dare vita a una musica unica, irripetibile che se verrà suonata nuovamente sarà comunque diversa. Non conosco molto il Jazz, ma il suo approccio alla musica mi piace.

Cappelletti mi è piaciuto. Mi ha offerto buoni spunti per riflettere su come ostacolare la follia dilagante di una larga parte del vivere contemporaneo, fondata sull’unico pilastro dell’Io-mio. Buono da leggere anche per i non appassionati al genere fino a pagina 120 circa, poi si entra nello specifico.

Riporto un bel passaggio:

L’improvvisazione in musica non può ridursi a mezzo per esprimere noi stessi, la nostra interiorità. Se intesa in modo così riduttivo mostrerà per intero i suoi limiti e svelerà, nei casi migliori, vuoto e sterile narcisismo, nei peggiori coazione a ripetere e noiosa e manieristica ripetizione di formule.. (..). Solo forzando i limiti del nostro linguaggio fino a farlo diventare altro, qualcosa di molto simile al silenzio (Paul Bley), al ruggito del leone (John Coltrane), alla scarica di energia di un fulmine (Charlie Parker), alla violenza di una cascata o di una battaglia (Cecil Taylor), è possibile inventare un nuovo linguaggio in grado di entrare in relazione con quello che esiste nel mondo. Solo così la musica può divenire “cosmo” ed è possibile ritrovare quella apertura al mondo che oggi, nella società globalizzata, appare stranamente problematica e carente, fino al punto di convertirsi in assuefatta indifferenza a tutto.

Io, mio, la mia interiorità, i miei figli, la mia casa, il mio lavoro. Fuori tutti, chi tocca gli sparo (di notte e non solo..).

Cito un altro passaggio, apparentemente in contraddizione con il precedente:

C’è un modo infallibile per capire se si è autentici jazzisti. Se non ci importa niente del pubblico, se i suoi gusti, le sue esigenze, le sue aspettative sono per noi meno che nulla allora possiamo aspirare a sentirci tali (…) In nessun caso il jazzista autentico si piegherà ad assecondare i gusti del pubblico o a farsi deprimere dalla sua disapprovazione. Al contrario, troverà una specie di orgoglio nell’andargli contro.. (…) Il Jazz è musica profondamente onesta, rifiuta la possibilità della manipolazione e dell’equivoco, che sono le chiavi del successo nella nostra epoca. Quello che conta è scoprire la verità, sui noi stessi e sul mondo, a qualsiasi livello si ponga, e per farlo occorre mettersi in gioco senza trucchi e contraffazioni…

Ma come, potrebbe obiettare qualcuno: si parlava di connessione col mondo e invece qui il musicista se ne frega del pubblico?

Non c’è alcuna contraddizione. La trappola in cui si cade e si scivola nell’individualismo sta nella confondere il partire da sè, radicato nel proprio baricentro ma riconoscendo che “io sono” solo nel “noi siamo” e il centrarsi su di un sè che viene prima, isolabile dal contesto, che inevitabilmente porta a sentirsi il centro del mondo e pretendere il riconoscimento da parte dell’altro.

Solo se radicato nella mia linea di vita, impegnato a coltivarla e farne una cosa bella, ho l’opportunità di fare del mondo un posto migliore per tutti e ho addirittura la possibilità di incontrare l’altro. Altrimenti quella possibilità l’ho già persa in partenza, affannato nell’inseguimento di riconoscimenti e applausi.

Ci sono già passato e tornerò spesso sul punto, perchè è la chiave. E, come dice il saggio (Antonio Albanese..) Se hai la chiave sei il padrone, entri ed esci quando vuoi; però devi sapere qual’è la porta giusta, altrimenti sei solo un pirla con la chiave..

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Vive la France

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Bel modo di iniziare la settimana. Buon lunedì.

 

 

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Only Human

Hannah Arendt, in un bellissimo passaggio (non ricordo più in quale libro) si rivolge all’interlocutore pressappoco così: “Perchè sia io che lei, caro signore, alla fine dei conti siamo e restiamo semplicemente due esseri umani”.

Una vita soltanto probabilmente non basta per cogliere fino in fondo cosa significhi questa affermazione, così semplice e così gravida di conseguenze.

A volte si incontrano, durante la ricerca, tracce che aiutano ad approfondire. Human è una di queste. Un film infinito di centinaia di storie che si intrecciano, dialogano; Centinaia di volti che si rivolgono direttamente allo spettatore e lo coinvolgono, lo chiamano dentro, gli ricordano che anche lui, alla fin dei conti, è e resta un essere umano.

Per chi lo avesse perso quando è uscito, per chi avesse voglia di rivederlo, magari assieme ad un altro che non l’aveva mai visto, ho scoperto che lo si può trovare in versione integrale in rete. Cliccando qui sotto si accede al Trailer, poi in coda si aprono le tre parti in cui è diviso l’intero film.

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Uno che parla (molto)

 

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C’è chi avrebbe fatto meglio a tacere e c’è chi invece parla (molto) e fa bene a farlo.

Non conoscevo Alessandro Bergonzoni e, nella mia ignoranza, quel poco che avevo visto di lui non mi piaceva molto, mi parevano inutili calembour verbali privi di utilità e senso.

Poi qualche tempo fa sono andato a Bologna al Festival della Cura (vedi qualche post sotto) e sono stato ad ascoltarlo. E’ uno intelligente, molto attento a quello che succede e non si limita alla satira ma “fa”, a partire dal suo impegno vicino a chi soffre. E a proposito di sofferenza ha le idee chiare, molte delle quali condivisibili.

Qui ho trovato un suo intervento in rete proprio sul tema. La traccia che ha seguito è stata la stessa del discorso bolognese, anche se in quell’occasione mi è parso ancora più incisivo. Chi volesse ascoltarlo può scrivermi, gli invio la registrazione.

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